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Il diffamatore: il collega che nessuno dovrebbe avere. Parlare male costituisce reato?

Un tuo collega di lavoro sta facendo circolare cattive voci su di te: va dicendo a tutti - magari anche al tuo Capo - che sei un incapace, una persona poco affidabile e raccomandata. Con altri si è anche sbilanciato nelle espressioni, usando insulti volgari e offensivi nei tuoi riguardi, magari “messaggiando” con altri su Facebook o WhatsApp.
In seguito, ti sembra di essere stato messo “alla berlina” nell’ufficio, ricevendo atteggiamenti sprezzanti ed arroganti nei tuoi confronti da parte di altri colleghi o superiori.  
Questi comportamenti fanno sentire giustamente arrabbiati e gravemente offesi e danneggiati per il discredito che essi recano alla propria persona, alla propria reputazione e prestigio professionale.

Di fronte a questi fatti cosa fare?
Intanto mantenere la calma e cercare tutelare i propri diritti, anche per difendere il tuo buon nome e la tua professionalità in azienda dopo anni di onorato servizio.
Vediamo dunque come difendersi dalle accuse sul posto di lavoro.
La diffamazione è un reato previsto e punito dall'art. 595 Codice Penale.
Questo lo sanno tutti e lo sa anche quel tuo collega che, tuttavia, crede di farla franca.
Egli infatti può essere portato a pensare di aver "solamente" detto i fatti “sottovoce”, alle tue spalle, a più persone, ma in contesti diversi, magari anche unicamente attraverso messaggi Facebook o WhatsApp.

Ma infatti è vero: la caratteristica della diffamazione è data dal fatto che le offese devono essere proferite in assenza della vittima e in presenza di più persone, per cui non c’è alcun reato se una persona parla male di un’altra solo con un amico.
Tuttavia, secondo i giudici, si configura il reato di diffamazione anche quando si sparla di qualcuno prima con una persona, poi con un’altra, poi con un’altra ancora, ecc… Insomma, quando l’episodio, seppur avvenuto inizialmente tra solo due soggetti, si ripete anche con altri, tanto da innescare una poco simpatica "catena".
Quindi la vittima di una diffamazione di tal specie può denunciare penalmente il suo vituperatore ai sensi dell'art. 595 del Codice Penale.
Il secondo aspetto cui prestare attenzione è che la diffamazione è un reato “a querela di parte”: ciò significa che se, entro tre mesi dall’accaduto (o da quando ne sei venuto a conoscenza), non si denuncia l’episodio ai Carabinieri o non si deposita una querela alla Procura della Repubblica Presso il Tribunale, si perde il tuo diritto di far punire il fastidioso colpevole.

E’ poi fondamentale fare un distinguo. 
Quando un collega parla male di te al datore di lavoro o agli altri colleghi, pur sapendo di dire una falsità, non commette calunnia.
Il reato di calunnia infatti scatta quando una persona accusa volontariamente un innocente – e davanti a una “pubblica autorità” (come un giudice, la polizia o i carabinieri) – di aver commesso un reato. La differenza non è solo terminologica: la calunnia è punita con la reclusione da 2 a 6 anni; la diffamazione con la reclusione da 1 a 2 anni.
Detto ciò, al povero diffamato non resta che difendersi dalla diffamazione.
“La miglior difesa è l’attacco”, dicevano gli antichi.

Pertanto si potrà sporgere querela contro i colpevoli facendo loro passare guai seri, avvalendoti in questa “delicata” operazione dell’ausilio di un legale di tua fiducia.
Tuttavia, per evitare che questa iniziativa non si risolva in un “buco nell’acqua” per mancanza di prove concrete, dovresti procurarti almeno un testimone. Questo soprattutto nel caso in cui le dichiarazioni infamanti siano state da te conosciute per interposta persona, grazie cioè alle confidenze di un’altra persona.
Ricorda che, se le accuse dovessero arrivare anche al datore di lavoro, quest’ultimo non potrebbe accusarti o avviare un procedimento disciplinare in mancanza di sufficienti prove a tuo favore. Diversamente, la sanzione disciplinare sarebbe illegittima e potresti impugnarla… oltre a chiedere il risarcimento del danno al collega che ha parlato male di te!